I furbetti del greenwashing hanno i mesi contati

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[ 19/04/2024 ]  

Fra non molto tempo - speriamo - definizioni come ‘ecologico’, ‘verde’, ‘amico della natura’, ‘rispettoso dell’ambiente’ e simili compariranno sulle etichette dei prodotti solo se comprovate da dati o certificazioni. È stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Ue, infatti, la normativa (Direttiva 2024/825Ue) che migliorerà la trasparenza delle etichette dei prodotti e vieterà l’uso di dichiarazioni ambientali fuorvianti. Di cosa stiamo parlando? Al solito, gli inglesi definiscono il fenomeno con una unica parola: ‘greenwashing’, letteralmente lavaggio verde. Sta a indicare tutte quelle attività di marketing - dalle etichette dei prodotti al packaging, alla pubblicità - che ammiccano o fanno esplicito riferimento a caratteristiche di eco-sostenibilità dei prodotti senza fondate prove che lo siano. È un po’ come dire che un prodotto è amico dell’ambiente perché ha una etichetta verde. Questo provvedimento modifica le precedenti direttive europee per la tutela dei consumatori relative ai diritti dei consumatori e alla prevenzione e divieto di pratiche commerciali considerate sleali adottate per promuovere un prodotto. Il termine greenwashing non è da confondersi con lecite attività di green marketing, cioè quell’insieme di strategie e attività che una azienda mette in atto per contribuire a migliorare la propria sostenibilità ambientale.

I nuovi divieti a favore di un vero green

Le aziende non potranno più adottare il cosiddetto ‘ ambientalismo di facciata’, verranno considerate infatti attività sleali (di greenwashing) fra l’altro: utilizzare dichiarazioni ambientali generiche, ad esempio ‘eco, verde, rispettoso dell’ambiente, naturale, biodegradabile, ed altre che non siano dimostrare con dati e prove; presentare caratteristiche obbligatorie per legge come distintive dell’offerta. Sarà regolamentato anche l’uso dei marchi di sostenibilità; vista la confusione causata dalla grande proliferazione degli stessi e dalla mancanza di dati comparativi. In futuro la Ue adotterà marchi di sostenibilità basati su sistemi di certificazione approvati o creati da autorità pubbliche. La direttiva vieta anche le dichiarazioni che suggeriscano, di un tal prodotto o servizio, un impatto ambientale neutro, ridotto o positivo, in virtù della partecipazione a sistemi di compensazione delle emissioni.

Obiettivo trasparenza anche per durabilità, riparabilità, garanzia

La normativa considera ingannevole fare dichiarazioni non chiare e corrette sulla durabilità dei prodotti. Un altro importante obiettivo della direttiva è infatti, richiamare produttori e consumatori a una maggiore attenzione alla durata dei beni per la quale sarà vietato dare indicazioni inesatte o non fondate su dati e prove. Ad esempio, sarà vietato dichiarare che una lavatrice durerà per 5.000 cicli di lavaggio, se ciò non corrisponde a condizioni normali di utilizzo; sarà vietato anche esplicitare inviti a sostituire i beni di consumo prima del necessario, o fare false dichiarazioni sulla riparabilità del prodotto. La normativa impone maggiore chiarezza sulle informazioni al consumatore relative alla esistenza della garanzia legale di conformità, ai suoi elementi principali, compresa la durata minima, utilizzando un avviso armonizzato, comprendendo anche la garanzia commerciale di durabilità senza costi aggiuntivi eventualmente offerta dal produttore al consumatore.

Quali rischi corrono i furbetti del greenwashing

Per le aziende che praticano il greenwashing c’è in ballo molto di più che una contravvenzione alla regola europea, e la relativa sanzione pecuniaria. Oggi, quando le informazioni corrono online, non si possono sottovalutare i rischi reputazionali e le reazioni dei consumatori delusi da un brand a cui hanno dato la loro fiducia: il marchio perde la sua attrattiva non solo per i clienti, ma anche per gli investitori. E perde di interesse anche da parte dei giovani professionisti, talenti che preferiscono lavorare per aziende che abbiano credibilità e una reale reputazione etica. L’Italia, come i Paesi dell’Unione, ha tempo fino a marzo 2026 per recepire le misure della direttiva europea nella legislazione italiana e fino a settembre dello stesso anno per rendere pienamente operative le disposizioni.


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